Kieran Dan, Crociera alle Bahamas

Fui costretto ad andare in vacanza con tutta la famiglia in Florida per incontrare il nuovo fidanzato di mia sorella. Non è che siamo così affezionati, ma era il Giorno del Ringraziamento, la scuola era chiusa e mi dissi, «Ma sì, chi se ne frega».
Il secondo giorno qualcuno ebbe la grande idea di fare una gita alle Bahamas. Arrivammo presto al traghetto, e ci diedero una colazione schifosa. Mentre la nave si staccava dalla banchina notai con la coda dell'occhio una donna in difficoltà. Era sulla settantina e cercava di tenere in equilibrio un vassoio con sopra delle uova mal cotte e del caffè. Mi voltai verso di lei, chiedendomi se non fosse il caso di andarle in aiuto, ma prima che potessi alzarmi in piedi la donna era già scivolata per una quindicina di metri sul ponte, atterrando sulla faccia. Fu allora che mi resi conto che eravamo a circa un chilometro dalla costa, e il mare era già piuttosto agitato. Io e il mio futuro cognato, chiamiamolo Steve, decidemmo per prudenza di spostarci fuori, sul ponte, vicino alle ringhiere. Trovammo un posto fantastico vicino a uno dei solarium, e cercammo di non pensare al movimento su-giù della nave: calma piatta per un attimo e onde continue subito dopo. Improvvisamente il vento aumentò parecchio e uno spruzzo gigante ci investì entrambi. All'inizio non avevo capito che cosa era successo, poi mi accorsi che il povero Steve aveva la colazione semidigerita di qualcun altro sui capelli, e che la mia camicia era coperta di bile puzzolente. Da li in avanti le cose andarono sempre peggio, e nel giro di un'ora stavamo male tutti quanti. Le ringhiere erano prese d'assalto da passeggeri che vomitavano in mare. Decisi di avventurarmi all'interno. Errore gigantesco: le uniche persone che stavano sotto coperta erano i passeggeri troppo malati, vecchi e incapaci di uscire. Persino l'equipaggio vomitava nei bagni, li ripuliva un po', per poi rivomitarci dentro. Il vomito praticamente ricopriva tutti i corridoi e si spostava a ondate.
Era decisamente troppo per me, mi rassegnai al mio destino, e tornai alla ringhiera. Mi sistemai accanto a una famiglia e svuotai il contenuto del mio stomaco parecchie volte in mare. E non prendo parte spesso alle attività di gruppo. Dopo un'ora così, con i muscoli dello stomaco contratti, decisi di raggiungere il resto della mia famiglia. Cercai per un bel po', ma non è facile distinguere una persona che vomita accartocciata alla ringhiera di una nave da un'altra. Finalmente ritrovai mia madre. Era riuscita ad afferrare un cestino delle immondizie e a monopolizzarlo per suo uso personale. Era pieno per metà, mi augurai solo che non fosse tutta roba sua.
Alla fine arrivammo a Nassau, e fu un paradiso poter posare i piedi a terra. Il tempo passò velocemente e molto presto ci ritrovammo all'imbarco per il viaggio di ritorno, che grazie a Dio fu normale.

Kieran, Dan, and Mondadori. Cinquanta vacanze orrende: storie di viaggi infernali. Torino: Einaudi, 2008.

Canestrini Duccio, Forme

Quanto alle forme date al pelo, sono infinite: baffi, strisce, cuori, farfalle, saette, occhi, stelle, foglie di marijuana a cinque punte. Con i nuovi modi di depilare il pube femminile è nata anche una nuova terminologia che ne definisce lo stile. Il cosiddetto Tiffany box, per esempio, è una scultura del triangolo a forma di cofanetto di gioielli: il pelo viene poi tinto nella classica tonalità blu Tiffany, ma anche color fucsia o verde mela. Quando sul monte rimane soltanto un ciuffetto, come all'ultimo dei mohicani, il taglio si chiama Beckham. Stile Hollywood, invece, è la rasatura completa tipo statua greca, detta anche Moby Style per via della testa pelata dell'omonimo cantante. 

Canestrini, Duccio. I misteri del monte di Venere : viaggio nelle profondità del sesso femminile. Milano: Rizzoli, 2010.

Augé Marc, Uniformazione dello spazio

Phileas Fogg, l'eroe di Jules Verne, oggi potrebbe fare il giro del mondo in molto meno di ottanta giorni, senza cambiare ambientazione (frequenterebbe, da un capo all'altro del mondo, le stesse catene alberghiere), senza smettere di guardare le stesse serie televisive o di apprendere il diretta (live) su BBC News le notizie del suo paese, senza dover interrompere i contatti con i suoi amici grazie al telefono e a Internet; e così attraverserebbe, senza vederli, i mondi più diversi e più sconvolti dalla storia: l'uniformazione dello spazio, da questo punto di vista, è un corollario dell'accelerazione del tempo.

Augé, Marc. Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo. Milano: Elèuthera, 2009.

Verne Jules, 1905

Chez beaucoup d’entre nous, la nouvelle de la mort de Jules Verne a produit plus qu’une surprise passagère... C’est que, au nom de Jules Verne, se rattachent beaucoup de nos souvenirs d’enfance, et qu’avec l’auteur de Vingt mille lieues sous les mers est disparu un de ceux qui enchantèrent nos jeunes années, un de nos bons génies, mieux encore, un de nos amis.

Scarabelli Matteo, La fine contiene già il principio

La fine contiene già il principio, la scintilla del viaggio che verrà. Mi era successo a Berlino, poi a San Pietroburgo. Mi succede anche oggi, a Roma. Da qui intravedo già la mia prossima strada. Non un itinerario ben preciso, soltanto una direzione, come una cometa da inseguire. Una magia. Sarà una strada lunga, lunghissima, molto più di questi 13.044 chilometri. Sarà il viaggio più bello. Per continuare a restare per aria e non tornare più giù.

Scarabelli, Matteo. C’è di mezzo il mare: viaggio in bicicletta intorno al Mediterraneo. Portogruaro (VE): Ediciclo, 2007.

Strayed Cheryl, Un sacco di vetro rotto

Pensavo solo ad andare avanti. La mia mente era un vaso di cristallo che conteneva quell’unico desiderio. Il mio corpo era il contrario: un sacco di vetro rotto. Ogni movimento era penoso. Contavo i passi per non pensare al dolore, snocciolando in silenzio i numeri fino a cento e poi ricominciando daccapo.

Ero eccitata di essere tornata sul sentiero, settecentoventi chilometri a nord da dove sarei dovuta essere. Non vedevo più le cime innevate e le alte pareti di granito dell’Alta Sierra, ma il sentiero mi dava la stessa sensazione. In molti modi, era anche lo stesso. Nonostante gli innumerevoli panorami montuosi e desertici che avevo visto, la cosa che mi era più familiare era la striscia larga sessanta centimetri del sentiero, la cosa su cui i miei occhi erano quasi sempre puntati, in cerca di radici e rami, serpenti e pietre. Talvolta il sentiero era sabbioso, talaltra roccioso oppure fangoso o ghiaioso, o ancora ricoperto di uno spesso strato di aghi di pino. Poteva essere nero o marrone o grigio o rossiccio come caramello, ma era sempre il PCT. Il centro del mondo.

Strayed, Cheryl, e Mondadori. Wild. Milano: Piemme, 2012.

Bird Isabella, Scendemmo a cena

Scendemmo a cena e solo il fatto di non aver toccato cibo da molte ore avrebbe potuto costringermi a mangiare in un simile luogo. Eravamo in una stanza lunga, al centro della quale stava un tavolo apparecchiato per cento persone. Ogni posto sulla panca, di fattura piuttosto grezza, era occupato. Il pavimento era appena stato lavato ed emetteva un fetido odore di umidità. Da un lato c’era un grande camino dove, a dispetto della giornata calda, erano in atto varie operazioni, che andavano sotto il nome generico di cucina. All’estremità della stanza c’era un lungo trogolo o lavello di piombo, dove tre sguatteri, unti e senza scarpe, erano costantemente impegnati a lavare i piatti che poi asciugavano nei loro grembiuli. I piatti però non venivano lavati, ma solo risciacquati superficialmente. C’erano quattro camerieri dall’aspetto di briganti con barbe e baffi incredibili.

A tavola non c’era una gran varietà. C’erano otto zampe di montone bollite, quasi crude, sei polli vecchi le cui cosce avevano la consistenza delle corde di una chitarra, un maiale arrosto  guarnito con cipolle che nuotava nel grasso e, come verdura, patate americane, pannocchie di granoturco e zucca. Una tazza di tè bollente, addolcito con melassa, stava di fianco ad ogni piatto e la compagnia non consumò alcun tipo di bevanda alcolica. Non c’erano trincianti, così ognuno doveva cavarsela con il proprio coltello e qualcuno fra i presenti tagliò la carne con destrezza usando il coltello da caccia che aveva nella cintura. Non c’erano neppure cucchiaini per il sale, così ciascuno immergeva il suo coltello unto nella piccola saliera di peltro. La cena ebbe inizio e, dopo aver soddisfatto il mio appetito con il piatto meno ripugnante, vale a dire il maiale arrosto guarnito con cipolle, ebbi tempo di guardarmi attorno.

Bird, Isabella. The Englishwoman in America, 1856 (traduzione: I sapori del viaggio, RCS Libri, 2008)

Bly Nellie, Quando venne servita la cena

Quando venne servita la cena, coraggiosamente entrai e mi sedetti alla sinistra del capitano. Ero assolutamente determinata a resistere ai miei impulsi, ma tuttavia in fondo al cuore avevo una debole, vaga sensazione di aver trovato qualcosa di più forte della mia volontà.

La cena cominciò molto piacevolmente. I camerieri di muovevano quasi senza far rumore, mentre l’orchestra suonava un’ouverture; il capitano Albers, bello e gioviale, prese posto a capotavola e i passeggeri che erano seduto al suo tavolo cominciarono a mangiare con lo stesso gusto di un ciclista entusiasta della bella strada. Ero l’unica al tavolo del capitano che si poteva definire marinaio d’acqua dolce. Ero amaramente conscia di questo fatto, come lo erano gli altri.

Potrei tranquillamente confessare che, mentre servivano la minestra, ero persa in pensieri dolorosi e invasa da uno sgradevole timore. Avvertivo che tutto era perfetto, come un regalo di Natale inatteso, e mi accinsi ad ascoltare i commenti entusiastici sulla musica fatti dai miei compagni, ma i miei pensieri erano rivolti a una questione che non ammetteva discussioni.

Avevo freddo, avevo caldo; sentivo che, se anche non avessi visto cibo per sette giorni, non avrei sofferto la fame; in realtà avevo un grande, vivo desiderio di non vederlo, non annusarlo, non mangiarlo sino a quando non avessi raggiunto la terraferma o un miglior controllo di me stessa.

Servirono il pesce e il capitano Albers era nel mezzo di una bella storia quando mi accorsi che non ce la facevo più. “Scusatemi” sussurrai debolmente e mi precipitai fuori di corsa, alla cieca. Fui scortata in un angolo remoto dove, dopo una breve riflessione e un piccolo sfogo delle mie emozioni fin lì trattenute, mi ripresi con coraggio, e decisi di accettare il consiglio del capitano tornando al pranzo interrotto.

“L’unico modo di vincere il mal di mare è sforzarsi di mangiare” aveva detto il capitano e decisi che il rimedio era abbastanza innocuo da poter essere sperimentato.

Al mio ritorno, si congratularono con me. Avevo la fastidiosa sensazione che mi sarei comportata di nuovo male, ma tentai di non darlo a vedere. Successe di lì a poco ed io sparii alla stessa velocità di prima.

Di nuovo ritornai. Questa volta i miei nervi erano traballanti e la fede nella mia determinazione si stava indebolendo. Mi ero appena seduta quando colsi un lampo divertito nell’occhio di un cameriere che mi fece seppellire il viso nel fazzoletto e soffocare prima che riuscissi ad allontanarmi dalla sala da pranzo.

I “brava” che gentilmente accolsero il mio terzo ritorno a tavola minacciarono di farmi di nuovo perdere il contegno. Fui felice di sapere che il pranzo era appena finito ed ebbi anche la sfacciataggine di dire che era stato molto buono!

Bly, Nellie. Around the World in Seventy-Two Days. New York: The Pictorial Weeklies Company, 1890 (traduzione: I sapori del viaggio, RCS Libri, 2008)