Delle varie tappe che caratterizzano il giro del mondo in barca a vela, il passaggio attraverso il Golfo di Aden è, di questi tempi, sicuramente una fra le più memorabili e cariche di emozioni. Ai soliti imprevisti e alle consuete incognite legate alla navigazione e alla meteo, vengono infatti ad aggiungersi i rischi di un attacco pirata, nonché il pericolo di venir coinvolti direttamente o indirettamente nei disordini e nelle stragi che interessano l’area compresa fra lo Yemen e la Somalia.
Per queste ragioni, la stragrande maggioranza dei giramondo, preferisce circumnavigare l’Africa per rientrare in Mediterraneo dallo stretto di Gibilterra, piuttosto che percorrere la rotta ad alta tensione che dalle coste dell’India meridionale conduce a Bab el Mandeb, a Djibouti e infine in Eritrea, dove stanchi ma sollevati per aver superato questa “audace” prova, abbiamo gettato l’ancora ieri pomeriggio. La retina della frutta è ormai vuota. Rimane soltanto qualche limone raggrinzito e una vecchia noce di cocco raccolta su un’isola delle Maldive.
Diciannove giorni di navigazione ininterrotta attraverso l’Oceano Indiano e il Mare Arabico hanno esaurito le nostre scorte e le nostre energie. Gli elicotteri e gli aerei da ricognizione della coalizione internazionale, di pattuglia a protezione dei convogli di petroliere e mercantili, sorvolano incuriositi a bassa quota la nostra piccola e vulnerabile barca a vela che naviga ai margini del canale di transito internazionale raccomandato. Via radio, una nave della marina militare giapponese ci aggiorna sui più recenti tentativi di approccio pirata invitandoci a segnalare qualunque imbarcazione o attività illegale sospetta.
La chiamata di soccorso di un cargo che seguiamo in diretta, innesca un sentimento di solidarietà con i marinai sotto attacco. La decisione di passare di qua per rientrare in Mediterraneo non è stata facile. Le incognite molte, come gli ostacoli, a cominciare dalle esortazioni delle autorità che invitano chiunque a stare alla larga. Riflettendoci però ci siamo detti che non è la prima volta che affrontiamo rischi simili nel corso della nostra circumnavigazione. Una parte dei Caraibi, le coste della Colombia, la selvaggia Papua Nuova Guinea, lo stretto di Malacca e parte della Thailandia, hanno fama analoga, se non peggiore. In questi cinque anni di viaggio i tentativi di aggredirci sono stati soltanto tre, tutti finalizzati al furto delle taniche di carburante.
In fondo, si viaggia e si naviga anche per non sentirsi troppo sicuri, per essere sfidati dall’imprevisto, messi a disagio da culture e usanze diverse, provocati da atteggiamenti inusuali, insomma per vedere come riusciamo a cavarcela al di fuori dell’ambiente protettivo che caratterizza la nostra quotidiana esistenza fra casa e ufficio. Burrasche, piccoli drammi, guasti, rotture, momenti difficili e a volte rischiosi, sono spesso quelli che si ricordano più a lungo e - passata la concitazione del momento - anche con maggiore trasporto. In fondo, è il prezzo da pagare per arricchirsi di nuove entusiasmanti esperienze, di nuove prospettive e nuovi sguardi sul mondo.
Ancorché atti di pirateria, attentati, sommosse e tragici eventi d’attualità facciano riflettere sui pericoli connessi al viaggiare, starsene a casa, a nostro avviso, non è la soluzione. Ma ecco che proprio mentre scriviamo queste righe anche per scaricare la tensione di questi giorni, una vecchia e pesante lancia in ferrocemento dell’esercito eritreo accosta senza tanti complimenti alla nostra barca. Due AK47 spianati dalla canna tutta ruggine manifestano l’intenzione di guadagnarsi quell’autorità che le uniformi mimetiche, sporche e rattoppate, non riescono più ad esprimere. Un ampio sorriso e un pacchetto di sigarette bastano per rilassare l’atmosfera, farsi dare un caloroso benvenuto in Eritrea e ottenere il permesso di riposare tranquilli fino a domani quando salperemo diretti più a nord verso nuove avventure.
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