Canestrini Duccio, Forme

Quanto alle forme date al pelo, sono infinite: baffi, strisce, cuori, farfalle, saette, occhi, stelle, foglie di marijuana a cinque punte. Con i nuovi modi di depilare il pube femminile è nata anche una nuova terminologia che ne definisce lo stile. Il cosiddetto Tiffany box, per esempio, è una scultura del triangolo a forma di cofanetto di gioielli: il pelo viene poi tinto nella classica tonalità blu Tiffany, ma anche color fucsia o verde mela. Quando sul monte rimane soltanto un ciuffetto, come all'ultimo dei mohicani, il taglio si chiama Beckham. Stile Hollywood, invece, è la rasatura completa tipo statua greca, detta anche Moby Style per via della testa pelata dell'omonimo cantante. 

Canestrini, Duccio. I misteri del monte di Venere : viaggio nelle profondità del sesso femminile. Milano: Rizzoli, 2010.

Augé Marc, Uniformazione dello spazio

Phileas Fogg, l'eroe di Jules Verne, oggi potrebbe fare il giro del mondo in molto meno di ottanta giorni, senza cambiare ambientazione (frequenterebbe, da un capo all'altro del mondo, le stesse catene alberghiere), senza smettere di guardare le stesse serie televisive o di apprendere il diretta (live) su BBC News le notizie del suo paese, senza dover interrompere i contatti con i suoi amici grazie al telefono e a Internet; e così attraverserebbe, senza vederli, i mondi più diversi e più sconvolti dalla storia: l'uniformazione dello spazio, da questo punto di vista, è un corollario dell'accelerazione del tempo.

Augé, Marc. Che fine ha fatto il futuro? Dai nonluoghi al nontempo. Milano: Elèuthera, 2009.

Verne Jules, 1905

Chez beaucoup d’entre nous, la nouvelle de la mort de Jules Verne a produit plus qu’une surprise passagère... C’est que, au nom de Jules Verne, se rattachent beaucoup de nos souvenirs d’enfance, et qu’avec l’auteur de Vingt mille lieues sous les mers est disparu un de ceux qui enchantèrent nos jeunes années, un de nos bons génies, mieux encore, un de nos amis.

Scarabelli Matteo, La fine contiene già il principio

La fine contiene già il principio, la scintilla del viaggio che verrà. Mi era successo a Berlino, poi a San Pietroburgo. Mi succede anche oggi, a Roma. Da qui intravedo già la mia prossima strada. Non un itinerario ben preciso, soltanto una direzione, come una cometa da inseguire. Una magia. Sarà una strada lunga, lunghissima, molto più di questi 13.044 chilometri. Sarà il viaggio più bello. Per continuare a restare per aria e non tornare più giù.

Scarabelli, Matteo. C’è di mezzo il mare: viaggio in bicicletta intorno al Mediterraneo. Portogruaro (VE): Ediciclo, 2007.

Strayed Cheryl, Un sacco di vetro rotto

Pensavo solo ad andare avanti. La mia mente era un vaso di cristallo che conteneva quell’unico desiderio. Il mio corpo era il contrario: un sacco di vetro rotto. Ogni movimento era penoso. Contavo i passi per non pensare al dolore, snocciolando in silenzio i numeri fino a cento e poi ricominciando daccapo.

Ero eccitata di essere tornata sul sentiero, settecentoventi chilometri a nord da dove sarei dovuta essere. Non vedevo più le cime innevate e le alte pareti di granito dell’Alta Sierra, ma il sentiero mi dava la stessa sensazione. In molti modi, era anche lo stesso. Nonostante gli innumerevoli panorami montuosi e desertici che avevo visto, la cosa che mi era più familiare era la striscia larga sessanta centimetri del sentiero, la cosa su cui i miei occhi erano quasi sempre puntati, in cerca di radici e rami, serpenti e pietre. Talvolta il sentiero era sabbioso, talaltra roccioso oppure fangoso o ghiaioso, o ancora ricoperto di uno spesso strato di aghi di pino. Poteva essere nero o marrone o grigio o rossiccio come caramello, ma era sempre il PCT. Il centro del mondo.

Strayed, Cheryl, e Mondadori. Wild. Milano: Piemme, 2012.

Bird Isabella, Scendemmo a cena

Scendemmo a cena e solo il fatto di non aver toccato cibo da molte ore avrebbe potuto costringermi a mangiare in un simile luogo. Eravamo in una stanza lunga, al centro della quale stava un tavolo apparecchiato per cento persone. Ogni posto sulla panca, di fattura piuttosto grezza, era occupato. Il pavimento era appena stato lavato ed emetteva un fetido odore di umidità. Da un lato c’era un grande camino dove, a dispetto della giornata calda, erano in atto varie operazioni, che andavano sotto il nome generico di cucina. All’estremità della stanza c’era un lungo trogolo o lavello di piombo, dove tre sguatteri, unti e senza scarpe, erano costantemente impegnati a lavare i piatti che poi asciugavano nei loro grembiuli. I piatti però non venivano lavati, ma solo risciacquati superficialmente. C’erano quattro camerieri dall’aspetto di briganti con barbe e baffi incredibili.

A tavola non c’era una gran varietà. C’erano otto zampe di montone bollite, quasi crude, sei polli vecchi le cui cosce avevano la consistenza delle corde di una chitarra, un maiale arrosto  guarnito con cipolle che nuotava nel grasso e, come verdura, patate americane, pannocchie di granoturco e zucca. Una tazza di tè bollente, addolcito con melassa, stava di fianco ad ogni piatto e la compagnia non consumò alcun tipo di bevanda alcolica. Non c’erano trincianti, così ognuno doveva cavarsela con il proprio coltello e qualcuno fra i presenti tagliò la carne con destrezza usando il coltello da caccia che aveva nella cintura. Non c’erano neppure cucchiaini per il sale, così ciascuno immergeva il suo coltello unto nella piccola saliera di peltro. La cena ebbe inizio e, dopo aver soddisfatto il mio appetito con il piatto meno ripugnante, vale a dire il maiale arrosto guarnito con cipolle, ebbi tempo di guardarmi attorno.

Bird, Isabella. The Englishwoman in America, 1856 (traduzione: I sapori del viaggio, RCS Libri, 2008)

Bly Nellie, Quando venne servita la cena

Quando venne servita la cena, coraggiosamente entrai e mi sedetti alla sinistra del capitano. Ero assolutamente determinata a resistere ai miei impulsi, ma tuttavia in fondo al cuore avevo una debole, vaga sensazione di aver trovato qualcosa di più forte della mia volontà.

La cena cominciò molto piacevolmente. I camerieri di muovevano quasi senza far rumore, mentre l’orchestra suonava un’ouverture; il capitano Albers, bello e gioviale, prese posto a capotavola e i passeggeri che erano seduto al suo tavolo cominciarono a mangiare con lo stesso gusto di un ciclista entusiasta della bella strada. Ero l’unica al tavolo del capitano che si poteva definire marinaio d’acqua dolce. Ero amaramente conscia di questo fatto, come lo erano gli altri.

Potrei tranquillamente confessare che, mentre servivano la minestra, ero persa in pensieri dolorosi e invasa da uno sgradevole timore. Avvertivo che tutto era perfetto, come un regalo di Natale inatteso, e mi accinsi ad ascoltare i commenti entusiastici sulla musica fatti dai miei compagni, ma i miei pensieri erano rivolti a una questione che non ammetteva discussioni.

Avevo freddo, avevo caldo; sentivo che, se anche non avessi visto cibo per sette giorni, non avrei sofferto la fame; in realtà avevo un grande, vivo desiderio di non vederlo, non annusarlo, non mangiarlo sino a quando non avessi raggiunto la terraferma o un miglior controllo di me stessa.

Servirono il pesce e il capitano Albers era nel mezzo di una bella storia quando mi accorsi che non ce la facevo più. “Scusatemi” sussurrai debolmente e mi precipitai fuori di corsa, alla cieca. Fui scortata in un angolo remoto dove, dopo una breve riflessione e un piccolo sfogo delle mie emozioni fin lì trattenute, mi ripresi con coraggio, e decisi di accettare il consiglio del capitano tornando al pranzo interrotto.

“L’unico modo di vincere il mal di mare è sforzarsi di mangiare” aveva detto il capitano e decisi che il rimedio era abbastanza innocuo da poter essere sperimentato.

Al mio ritorno, si congratularono con me. Avevo la fastidiosa sensazione che mi sarei comportata di nuovo male, ma tentai di non darlo a vedere. Successe di lì a poco ed io sparii alla stessa velocità di prima.

Di nuovo ritornai. Questa volta i miei nervi erano traballanti e la fede nella mia determinazione si stava indebolendo. Mi ero appena seduta quando colsi un lampo divertito nell’occhio di un cameriere che mi fece seppellire il viso nel fazzoletto e soffocare prima che riuscissi ad allontanarmi dalla sala da pranzo.

I “brava” che gentilmente accolsero il mio terzo ritorno a tavola minacciarono di farmi di nuovo perdere il contegno. Fui felice di sapere che il pranzo era appena finito ed ebbi anche la sfacciataggine di dire che era stato molto buono!

Bly, Nellie. Around the World in Seventy-Two Days. New York: The Pictorial Weeklies Company, 1890 (traduzione: I sapori del viaggio, RCS Libri, 2008)

Curzon Robert, Qualcosa di squisito

Dopo aver chiacchierato di svariati argomenti mi informai sulla biblioteca e chiesi se potevo visionarne il contenuto. L’agoumenos si dichiarò lieto di mostrarmi tutto quello che il monastero conteneva. “Ma prima” disse “desidero offrirvi qualcosa di squisito per colazione e per mostrarvi tutta la benevolenza che nutro per un ospite così illustre, lo preparerò con le mie mani e sarò presente mentre lo mangiate, perché è davvero un piatto delizioso che non viene offerto a chiunque”. “Bene” pensai “una buona prima colazione è un’ottima cosa”. La fresca aria di montagna e la buona notte di sonno mi avevano messo appetito, così espressi il mio ringraziamento per la gentile ospitalità dell’abate ed egli, sedendosi di fronte a me sul divano, procedette a preparare la sua ricetta. “Questo” disse presentando una bacinella poco profonda piena a metà di pasta bianca “è il principale e più gustoso ingrediente del famoso piatto: è composto da teste d’aglio triturate con un po’ di zucchero. Nell’impasto verso l’olio nelle dovute proporzioni, delle fettine di buon formaggio –sembrava che fosse del tipo bianco acido che assomiglia a quello chiamato in Italia meridionale caccia cavallo – e vari altri buoni condimenti. E adesso è pronto!” Rimestò quel gustoso pasticcio con un grande cucchiaio di legno sino a quando nella stanza, nel corridoio e nelle celle, al di là della collina e della valle non si sparse un aroma che non si può descrivere. “Ecco” disse l’agoumenos, spezzettando dentro alcuni pezzi di pane con le sue mani grandi e alquanto sporche “questo è un piatto degno di un imperatore! Mangiate, amico mio, mio illustre ospite, non siate timido. Mangiate. E quando avrete pulito la ciottola, andrete nella biblioteca e dovunque vogliate andare; ma non andrete da nessuna parte sino a quando non avrò avuto il piacere di vedervi rendere giustizia a questo cibo delizioso, che, ve lo assicuro, non troverete altrove”.

Ero estremamente turbato. Chi avrebbe mai immaginato un martirio così atroce? La mela acerba dell’eremita nella valle sottostante era niente, una quisquilia al confronto! Quando mai si è visto somministrare ad uno sfortunato bibliofilo una medicina come questa? Sarebbe stata sufficiente a convincere tuto il Roxburgh Club a non avere mai più a che fare con libri e biblioteche.

Curzon, Robert. Visits to monasteries in the Levant. London: John Murray, 1849 (traduzione: I sapori del viaggio, RCS Libri, 2008)

Fraser John Foster, Un pasto di nga-pee birmano

Arrivammo per tempo a Fyaukmyaung, o Kyoukmoung, o come volete chiamarlo, noto per essere stato uno o due anni fa saccheggiato dai briganti. Eravamo stanchi del solito riso e Lowe, nella sua ingenuità, suggerì una cena a base di pesce. L’idea era brillante, ma per poco non ci uccise tutti e tre. Avevamo mangiato zampe di rana in Francia e osservato con tranquillità il consumo di papaveri in Cina. Era quindi appropriato un pasto di nga-pee birmano.

Dopo che ci fummo ripresi dal nostro malessere, facemmo indagini sul modo in cui veniva preparato il cibo. Prima di tutto il pesce veniva pescato e messo a seccare al sole per tre giorni. Il pesce morto, ma che si muoveva ancora, veniva poi pestato con molto sale, e messo in un vaso di terracotta: quando si toglieva il coperchio, tutti, anche a otto chilometri di distanza, sapevano cosa c’era dentro.

Il nga-pee, me ne resi conto ben presto, era una prelibatezza che poteva essere apprezzata solo dai palati più raffinati. Il sapore è originale: è salato, quasi come burro rancido aromatizzato con formaggio di Linburg, aglio e olio di paraffina. L’odore è più interessante del sapore. Non passa inosservato.

Fraser, John Foster. Round the world on a wheel. London: Methuen & Co., 1899 (traduzione: I sapori del viaggio, RCS Libri, 2008)

Hunt Jackson Helen, C’è della trota?

C’è della trota? No. Pollo? No. Bistecche? No. Che cosa possiamo mangiare? Vitello e uova. I forestieri provenienti da Gastein avevano praticamente mangiato tutto il cibo della taverna di Berchtesgaden. Il vitello e le uova costituiscono la dieta principale dello stomaco tedesco: il vitello lesso grondante di grasso e senape e le orribili uova piene di burro e aglio. Puah! Per tutta la vita ricorderò l’insalata di uova che la cara Marie ha aggiunto ieri sera alla nostra cena e che ho assaggiato appena, per educazione, ma sono stata costretta a mandare giù in fretta con grosse sorsate di birra, come fosse calomelano. Pensavo di aver mangiato male in Italia, ma do senza dubbio alla Germania la palma della vittoria.

Hunt Jackson, Helen. Bits of travel. Boston: J.R. Osgood, 1874 (traduzione: I sapori del viaggio, RCS Libri, 2008)